La disabilità in Sudafrica: l’esperienza dei volontari SCU alla Athlone School for the blind

Ostacoli. Pregiudizi. Discriminazione. Maggiori rischi di esclusione sociale. Minori opportunità. Più limitazioni nell’accedere a percorsi educativi o formativi, al lavoro, alle cure sanitarie e alle tecnologie digitali. Sono queste le condizioni che si trovano ad affrontare ogni giorno le persone con disabilità. Nonostante siano stati fatti progressi importanti in alcuni Paesi, in altri, invece, la situazione non si è evoluta. Le persone con disabilità rimangono ancora ai margini e sono ancora troppo poco valorizzate.

Il tema sociale della disabilità in Sudafrica è molto sentito ed i nostri operatori volontari di Servizio Civile Universale, impegnati a Cape Town, si stanno impegnando in diversi progetti volti a migliorare le condizioni di vita di bambini e ragazzi con disabilità visive, intellettive e motorie. Le difficoltà che hanno incontrato o che si trovano tuttora ad affrontare sono diverse, ma la loro caparbietà, il loro spirito di sacrificio, la loro voglia di aiutare chi è in difficoltà e le loro soft e hard skills stanno facendo la differenza. L’esperienza maturata in questo anno li ha sicuramente arricchiti dal punto di vista umano e professionale, ma soprattutto li ha aiutati a cambiare prospettiva: in una persona non si devono guardare i limiti, ma le potenzialità.

Elena e Pietro, cui va tutto il nostro ringraziamento per l’eccellente lavoro svolto da operatori SCU e per l’impegno profuso nel promuovere il bene comune, ci hanno raccontato la loro quotidianità, i loro pensieri, le loro sfide e alcuni momenti che rimarranno impressi in maniera indelebile nelle loro vite.

Elena e le parole che fanno la differenza: “Disabilità? Ognuno di noi è fatto di abilità, risorse e potenzialità”

Ho studiato Scienze Motorie e uno dei corsi che ho frequentato è stato “Allenamento per l’atleta con disabilità”. Ricordo ancora la prima lezione: tra le tante definizioni affrontate, quella di inclusione mi rimase particolarmente impressa.

Il professore spiegò che inclusione non significa semplicemente mettere tutti insieme nello stesso momento, ma offrire a ciascuno le stesse condizioni per esprimere il proprio potenziale.

Parlammo anche delle differenze tra handicap e disabilità:

  • Handicap: condizione di svantaggio, derivante da una menomazione o da una disabilità, che limita o impedisce di svolgere un ruolo considerato “normale” in base a sesso, età e fattori sociali.
  • Disabilità: qualsiasi limitazione o perdita della capacità di svolgere un’attività nelle modalità o nella misura ritenute normali per un essere umano.

Queste definizioni mi hanno fatto riflettere su come il linguaggio spesso ponga l’attenzione su ciò che manca, invece di valorizzare ciò che c’è. Eppure, ognuno di noi è fatto di abilità (se vogliamo utilizzare il neologismo coniato da Arturo Mariani, allora il termine corretto è proabilità, n.d.r.), risorse e potenzialità che meritano di essere riconosciute e messe in luce.

DISABILITÀ IN SUDAFRICA LA NOSTRA ESPERIENZA DA VOLONTARI ALLA ATHLONE SCHOOL FOR THE BLIND

Quello che mi ha colpito di più, però, non sono state le definizioni, ma il senso di comunità che si è creato. I ragazzi si aiutavano tra loro con spontaneità, senza competizione, e con un rispetto reciproco raro da incontrare. Spesso sono stati loro a educarmi, permettendomi di comprendere la corretta metodologia di insegnamento. Ricordo un episodio in particolare: per far capire il movimento corretto dello skip a un compagno, uno di loro gli posizionò delicatamente le mani sulle ginocchia, così che potesse percepire il gesto attraverso il tatto. Un gesto semplice, ma pieno di significato.

Lì ho capito che l’apprendimento non è mai a senso unico: quando insegni, impari; e quando impari, insegni.

Non voglio sembrare romantica o irrealista, ma a volte penso che la disabilità esista davvero solo quando ci fermiamo a guardarla, invece di vedere la persona nella sua interezza.

Elena Pozzi

Volontaria SCU OPES a Cape Town

Pietro, l’esperienza all’Athlone con i ragazzi con disabilità visive e l’importanza del gioco

Tra i progetti che ho scelto di seguire durante il mio anno di servizio civile in Sudafrica in collaborazione con la University of the Western Cape, quello alla Athlone è senza dubbio il più “speciale”.

La Athlone school for the Blind è la più grande e antica scuola per studenti affetti da disabilità visive di tutta la provincia. Aperta nel 1927 nell’omonimo quartiere e successivamente trasferita a Glenhaven, Bellville, la Athlone accoglie circa 300 tra bambini e ragazzi di ogni età, per quello che corrisponderebbe alle nostre classi dalla scuola materna fino alla scuola superiore.

Gran parte di essi, provenienti da tutto il Sudafrica, sono ospitati negli alloggi messi a disposizione dall’istituto stesso, essendo che la maggioranza delle famiglie degli studenti non riuscirebbe economicamente a coprire la quota d’iscrizione minima. Inoltre, circa un quarto degli alunni accolti dalla scuola (e non di rado perciò protetti in questo modo da contesti superstiziosi e crudeli nei quali si ritroverebbero perseguitati) sono affetti da albinismo, condizione genetica correlata tra le altre cose anche a importanti riduzioni delle capacità visive.

DISABILITÀ IN SUDAFRICA LA NOSTRA ESPERIENZA DA VOLONTARI ALLA ATHLONE SCHOOL FOR THE BLIND

Sicuramente le passate esperienze con bambini e ragazzi e la voglia di confrontarmi con la realtà didattica mi hanno dato una bella spinta verso la scuola. Ma ho scelto di partecipare al progetto della Athlone anche perché lo vedevo come una continuazione diretta del lavoro fatto dai volontari OPES a Cape Town dell’anno scorso.

Parlando con loro prima di venire qua, mi sono reso conto come questo progetto sia stato di gran lunga quello che li ha maggiormente coinvolti ed entusiasmati, e in cui hanno investito più tempo, risorse ed energie. I miei ex colleghi SCU davano una mano alle maestre nelle classi, coprivano loro stessi il ruolo di insegnanti di educazione fisica, offrivano agli studenti laboratori di musica e cucina e doposcuola sportivi pomeridiani di calcio e atletica.

Così, a partire da febbraio, senza la pressione e presunzione di dover per forza ereditare tutte le attività dei miei predecessori, sono entrato anch’io alla Athlone come insegnante di educazione fisica.

Miss Benjamin, la fisioterapista della scuola, mi ha aiutato per le prime settimane. Dover gestire classi di bambini e ragazzi con disabilità visiva certamente non è cosa facile.

Miss Benjamin, durante una delle nostre prime visite alla scuola, aveva fatto indossare a me e gli altri volontari del gruppo diverse paia di occhiali speciali che offuscavano la vista riproducendo così per noi stessi i (diversi) modi in cui gli studenti effettivamente vedono la realtà intorno a loro: alcuni occhiali appannavano la vista in maniera omogenea nel campo visivo, altri solo a destra o a sinistra, da vicino o da lontano; un paio la restringeva a un unico fascio centrale, un altro oscurava completamente il centro, permettendo di vedere solo lateralmente. Un altro paio, poi, ancora filtrava la luce in maniera tale da rendere impossibile distinguere i colori. Un ultimo, invece, causava dolore agli occhi se uscivamo sotto il sole.

Senza entrare troppo in tecnicismi che non mi competono, i diversi tipi di disabilità visive di cui gli alunni sono affetti compromettono acutezza e campo visivo, percezione dei colori e della profondità, abilità di cambiare obiettivo messo a fuoco e di seguire lo stesso obiettivo nello spazio.

Calarmi in prima persona nel modo attraverso il quale gli studenti stessi vedono l’ambiente circostante certamente mi ha dato un’idea di come i ragazzi reagiscono agli stimoli intorno ad essi, cosa possono e non possono fare, quali siano gli scogli più alti da sormontare e in che modo è possibile aiutarli più efficacemente per svolgere attività motoria. E nonostante ciò, non nascondo che per me all’inizio sia stata davvero dura.

DISABILITÀ IN SUDAFRICA LA NOSTRA ESPERIENZA DA VOLONTARI ALLA ATHLONE SCHOOL FOR THE BLIND

Non di rado mi accorgevo che le attività che proponevo non “funzionavano” come avrei desiderato, sicuramente perché le mie istruzioni in inglese lasciavano ancora un po’ a desiderare, ma spesso proprio perché la varietà delle disabilità degli studenti rendeva difficile aspettarsi che tutta la classe riuscisse a svolgere gli stessi esercizi allo stesso modo.

La scuola presenta tre diverse sezioni per suddividere le classi: “A”, per studenti ciechi (con acuità visiva inferiore a 1/60 e percezione della luce minore di 10° o totalmente assente); “B”, per studenti ipovedenti (con acuità visiva compresa tra 6/18 e 3/60); e infine “SID”, per studenti che, oltre a presentare disabilità visive di vario grado, sono anche affetti da disabilità intellettive più o meno gravi (Severe Intellectual Disability).

Inutile dire che è proprio con quest’ultimo tipo di classi, i cui bambini e ragazzi spesso necessitano di essere seguiti uno ad uno, che ho faticato di più a trovare una quadra.

Ovviamente alla Athlone non sono solo: Simone mi affianca per questo ruolo stimolante di insegnante di educazione fisica; sempre lui ed Elena assistono negli allenamenti la squadra di atletica, vero fiore all’occhiello dell’istituto. Ellen, con la sua esperienza in digital marketing, si occupa invece di promuovere la scuola, i suoi eventi e le sue attività su Internet e i social. Le maestre delle classi supervisionano le nostre attività in palestra coi ragazzi e miss Benjamin continua a dispensarci consigli ogniqualvolta ne abbiamo bisogno.

Solo con il passare del tempo tuttavia ho imparato a conoscere meglio le classi ed entrare in sintonia con gli studenti, proponendo attività più adatte a ogni gruppo e usando le giuste istruzioni per farmi capire da tutti. Così il mio lavoro ha iniziato a scorrere in discesa.

Sembra scontato dirlo, ma per relazionarsi con una classe di ragazzi ciechi o ipovedenti è fondamentale usare un linguaggio semplice ma preciso, con un tono di voce sempre chiaro ma modellato a seconda del contesto, in modo da sapersi spiegare anche quando la vista degli ascoltatori non può aiutare.

Fondamentale per me è stato anche proporre sempre più attività di gioco a scapito di esercizi e percorsi a ostacoli, che alla lunga apparivano noiosi, ripetitivi, e soprattutto correlati più di altre cose alla necessità di seguire i ragazzi individualmente uno alla volta.

Per bambini che, va detto, sono molto più sfortunati di altri, l’ora di educazione fisica a scuola rappresenta una preziosa occasione in cui possono veramente muoversi liberamente e concedersi momenti di svago speciali difficilmente replicabili in altre circostanze. E quale modo migliore per permettere ciò se non attraverso il gioco? Giocare piace a tutti, bambini e ragazzi di ogni latitudine e colore della pelle, con o senza disabilità, e non solo stimola il movimento, ma permette agli alunni di fare esperienze di teambuilding e lavoro di squadra; e tutto questo divertendosi, che è la cosa più importante.

Certo, trovare giochi adatti alle esigenze di ciascuna classe non è sempre cosa semplice, ma a me e gli altri gli spunti non mancano, tra giochi individuali o cooperativi, in palestra o all’aria aperta, stimolando la vista o piuttosto altri sensi come l’udito o il tatto.

Alcune classi sono letteralmente impazzite dal divertimento dopo aver giocato a rubabandiera o al lupo mangia-frutta, cioè giochi semplici di cui però non avevano mai sentito parlare. Ancora, mi viene da pensare che questi bambini un po’ sfortunati non abbiano giocato abbastanza, come invece è giusto e necessario che sia. Tutte le classi adorano poi i giochi con la palla, che beninteso non è mai una palla normale ma una palla con un sonaglio all’interno che fa rumore quando viene lanciata o fatta rotolare, in modo che tutti possano sentirla arrivare ed esser pronti a prenderla al volo.

DISABILITÀ IN SUDAFRICA LA NOSTRA ESPERIENZA DA VOLONTARI ALLA ATHLONE SCHOOL FOR THE BLIND

Il gioco per i ragazzi è anche uno strumento che fa da ponte col mondo dello sport.

Qualche giorno fa, al termine di una lezione, ho lasciato che i ragazzi giocassero un quarto d’ora a calcio prima di tornare in classe. Uno degli alunni, con evidenti difficoltà visive, si ostinava a prendere il pallone con le mani in qualsiasi punto di quello che era il campo di gioco, giustificandosi che fosse il portiere. Alla terza volta che lo faceva l’ho preso da parte spiegandogli che il portiere può sì prendere il pallone con le mani ma solo vicino alla propria porta per fare una parata, e che comunque non c’era bisogno del portiere visto che stavamo giocando a porte piccole.

Mi sono meravigliato nel constatare che non tutti conoscessero le regole base, sebbene episodi simili fossero già capitati altre volte con altri studenti; eppure tutti, compreso il ragazzo in questione, e compresi gli alunni (perlopiù maschi a dire il vero) delle altre classi, a prescindere dal tipo di complicazioni, tutti chiedono sempre di giocare anche un po’ a calcio ogni tanto.

Non sempre ho tempo a sufficienza per accontentare ognuno, ma sulla base di queste richieste a gran voce uno si aspetterebbe che gli studenti le regole le sappiano già. Solo adesso però rifletto che questo assunto non è poi così scontato, specie se parliamo di ragazzi con disabilità visiva che una partita di calcio alla televisione magari non l’hanno mai potuta osservare bene propriamente.

Ma non si può nemmeno dire che questi ragazzi vogliano giocare a pallone solo per emulare i compagni con una vista migliore e a cui il calcio, com’è normale che sia, piace. Il ragazzo di cui vi ho riportato l’episodio, dopo avergli svelato l’arcano, si è buttato a capofitto nella mischia tirando calci al pallone con impegno e divertimento puro. Perché il calcio, come altri sport, è prima di tutto un gioco da vivere e condividere insieme agli altri, a prescindere che ci vedano o meno.

L’esperienza alla Athlone mi ha aperto un mondo nuovo, pieno di sfide e ostacoli sì, ma le cui ricompense ti colmano l’anima. Perché sebbene lo sguardo di questi bambini e ragazzi con disabilità visiva possa trarre in inganno, il sorriso di chi è felice e pieno di eccitazione per l’ora di educazione fisica, il sorriso che vedo sempre quando sono lì, quello non mente mai.

Pietro Menicagli

Volontario SCU OPES a Cape Town

Condividi il post:

Articoli simili